Hongne, Paul

Paul Hongne nacque nel 1919. Svolti gli studi di fagotto, di fatto non poté intraprendere la carriera che al termine della seconda Guerra Mondiale. Durante il conflitto fu fatto prigioniero e internato: trascorse quel periodo in Polonia, trasferito da un campo di prigionia all’altro. Tornato in libertà al termine della guerra, rientrò a Parigi. Qui iniziò una fortunata e lunga carriera, nel corso della quale si dedicò al repertorio solistico, imponendosi tra i portabandiera della tradizionale scuola strumentale francese, come pure all’ambito orchestrale, in qualità di terzo fagotto dell’orchestra del Teatro dell’Opèra.
Soprattutto, fu attivo nell’ambito della musica da camera: nel 1949 subentrò a Maurice Allard (1923-2004) nel Quintette à vents français, attivo dal 1945, a fianco dei tre rimanenti soci fondatori, il flautista Jean-Pierre Rampal, l’oboista Pierre Pierlot, il clarinettista Jacques Lancelot (1920-2009), e del cornista Gilbert Coursier, entrato a far parte della formazione nel 1948 in sostituzione di René Manem. Nella nuova formazione, il complesso avrebbe portato avanti un’intensa attività concertistica e discografica per poco meno di vent’anni. Nel 1965, Rampal avrebbe abbandonato il gruppo; al suo posto sarebbe subentrato Maxence Larrieu (1934), con il quale il quintetto avrebbe proseguito l’attività fino al 1968.
Nel 1952, insieme a Rampal, Pierlot, al violinista Robert Gendre e al pianista e clavicembalista Robert Veyron-Lacroix (1922-1991), fu tra i fondatori dell’Ensemble baroque de Paris, con cui avrebbe svolto una pionieristica attività di riscoperta del repertorio antico. Alla produzione barocca, inoltre, Hongne prestò particolare attenzione nelle sue frequenti collaborazioni, in veste di solista, con il direttore d’orchestra Jean-François Paillard (1928-2013). Morì nel 1979.
Lo stile di Paul Hongne rappresenta la più tipica incarnazione della tradizione fagottistica francese. Il caratteristico timbro nasale, tendenzialmente chiaro, del suono fondamentale appare raffinatamente sfumato in una ricca tavolozza di timbri e d’inflessioni, che insieme al fraseggio netto ed elegante concorre a dar vita all’intima espressività dell’eloquio, pervaso di schietto lirismo.