Glass, Philip
1. Philip Glass (a sinistra) e Robert Wilson (a destra) nel 1976. Foto di Robert Mapplethorpe, Tate and National Galleries of Scotland, AR00214.
2. Philip Glass mentre esegue Book of Longing. Milano, MITO SettembreMusica,Teatro degli Arcimboldi, 2008.
3. Philip Glass in concerto ad Aarhus, Danimarca, 2017.
Philip Glass è nato a Baltimora il 31 gennaio 1937. All’età di sei anni iniziò a studiare violino, mentre a otto fu ammesso alla classe di flauto presso il Peabody Conservatory of Music. A dodici anni iniziò a comporre e nel frattempo, dopo scuola, aiutava il padre nel suo negozio di dischi. A quindici anni Glass lasciò la scuola per entrare all’University of Chicago, dove si laureò nel 1956. A Chicago fu allievo di Marcus Rasking, che lo introdusse al metodo dodecafonico, che Glass adottò per poi abbandonarlo prima della laurea. Nel 1956-57 iniziò a studiare presso la Juilliard School di New York, dove si laureò in composizione nel 1961 aderendo alle tendenze tonali della scuola sinfonica americana. In questo periodo scrisse una settantina di brani, quasi tutti eseguiti da allievi della Juilliard e in parte pubblicati dalla casa editrice Elkan-Vogel.
Grazie a una borsa di studio della Ford Foundation, dal 1961 al 1963 Glass risiedette a Pittsburgh e continuò a comporre brani per diversi organici, in base ai musicisti disponibili nelle scuole cittadine. Nei due anni successivi una borsa Fulbright gli permise di studiare a Parigi con Nadia Boulanger: in questo periodo compose poco, ma ristabilì le basi della sua tecnica e del suo pensiero musicale. Il giovane compositore non trovò grande interesse nelle nuove avanguardie francesi, il cui esponente principale era Pierre Boulez, mentre subì in maniera determinante l’influenza della musica indiana, in particolare per quanto riguarda i processi addittivi e le strutture cicliche: iniziava così ad emergere quello che sarebbe diventato lo stile minimalista. Tra i lavori composti in questo periodo di transizione il più rappresentativo è il Quartetto per archi del 1966, dove si assiste alla ripetizione di cellule e alla rigorosa suddivisione formale in moduli che ricorrono nelle varie voci.
Lasciata Parigi, Glass intraprese dei viaggi in Africa settentrionale e nel subcontinente indiano. All’inizio del 1967 tornò a New York e il 18 marzo assistette a un concerto con musiche di Steve Reich, anche lui un ex allievo della Juilliard: i due strinsero velocemente un sodalizio artistico, per cui analizzavano a vicenda i rispettivi brani e suonavano l’uno nell’ensemble dell’altro (Reich rimase in quello di Glass fino al maggio 1970, Glass in quello di Reich fino al 1971). Fu soprattutto a New York che emerse l’influsso della musica indiana sulla produzione di Glass: il 13 aprile 1968 il compositore tenne un concerto dei propri lavori in questo nuovo stile presso il Queens College, un evento da lui poi considerato come il suo vero e proprio debutto. Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta Glass sviluppò uno stile assolutamente personale, basato su cicli addittivi e sottrattivi di cellule diatoniche e armonicamente statiche su disegni ritmici meccanici. In questo stesso periodo il Philip Glass Ensemble assunse la sua conformazione stabile, incentrata su un nucleo di strumenti a fiato e tastiera amplificata, cui a volte si aggiungevano la voce o strumenti ad arco.
A quest’epoca, Glass aveva raggiunto la piena maturità artistica. Fino alla fine degli anni Settanta scrisse quasi esclusivamente per il proprio ensemble, il quale divenne la sua unica voce pubblica, svolgendo tournée internazionali quando l’interesse per la sua musica iniziò a diffondersi. I luoghi dove l’ensemble si esibiva non erano quelli convenzionalmente adibiti ai concerti, prediligendo invece gallerie d’arte, loft di artisti, musei dove si instaurava un’interazione tra le installazioni, i video e la musica. La prima sala da concerti tradizionale ad ospitare la musica di Glass fu la Town Hall di New York, affittata dallo stesso compositore nel 1974 per presentare il ciclo completo della Music in Twelve Parts, la cui composizione lo aveva tenuto impegnato per tre anni; il lavoro segna l’apice del minimalismo di Glass, aprendosi ad abbracciare anche l’armonia funzionale.
Glass raggiunse la fama internazionale con Einstein on the Beach, rappresentato al Teatro Metropolitan il 21 novembre 1976 e creato in collaborazione con il regista e artista visivo Robert Wilson, il quale combinava i diversi media in maniera non sequenziale così da ricordare più il sogno che non la convenzionale drammaturgia lineare. In Einstein on the Beach la trama è sostituita da una serie di icone drammatizzate che rimandano alla vita (il suo violino) e al lavoro di Einstein (la teoria della relatività). Il libretto consiste in solfeggi e numeri, inizialmente usati per far esercitare i cantanti e poi lasciati invariati. L’opera,connotata da una musica molto propulsiva, durava cinque ore, durante le quali il pubblico poteva entrare e uscire a piacimento. L’esperienza di Einstein on the Beach indusse Glass a dedicarsi primariamente alla composizione per il teatro, il cinema e la danza, trascurando invece la sala da concerti.
I suoi successivi lavori teatrali di ampia scala furono Satyagraha (1980) e Akhnaten (1984), i quali insieme con Einstein on the Beach formano una trilogia (non pianificata) di «character operas», come Glass stesso le ha chiamate, pur preferendo la definizione «teatro musicale», più generica. Satyagraha è in un certo senso un lavoro ibrido, sia per quanto riguarda l’orchestrazione, che trasporta in dimensione orchestrale il Philip Glass Ensemble, sia nella concezione, dove si mescolano agiografia, fiaba e fumetto. Akhnaten, che parla del faraone egizio che introdusse il monoteismo, è la più emozionante delle tre ma anche la più tradizionale in termini di forma e stile. Glass la considera la propria opera «tragica», dopo l’«apocalittica» Einstein on the Beach e la «lirica» Satyagraha; essa segna anche un riavvicinamento a un’orchestrazione più convenzionale e a una narrativa lineare.
Dopo Akhnaten, Glass è tornato a collaborare con Bob Wilson, con il quale ha partecipato alle sezioni di the CIVIL warS a Colonia e Roma; ha lavorato anche con altri artisti in produzioni operistiche di scala minore, mentre la spinta propulsiva della sua musica ha attirato l’attenzione di molti coreografi. La sua capacità di adattare il proprio stile, così caratteristico, a materiali estremamente diversi lo ha portato a scrivere le musiche per numerosi film di vario genere, da pellicole sperimentali a documentari, film di guerra e horror. Per la colonna sonora di Kundrun è stato nominato all’Oscar, mentre quella di The Truman Show gli ha fatto guadagnare un Golden Globe.
Diventato ormai un personaggio pubblico, nel 1984 Glass è stato invitato a comporre le musiche per l’apertura cerimoniale delle Olimpiadi di Los Angeles, mentre nel 1992, in occasione del cinquecentesimo anniversario della scoperta dell’America, il Metropolitan gli ha commissionato l’opera The Voyage, la quale si è rivelata il suo lavoro più controverso, lodato per l’audacia e criticato per la volgarità. Subito dopo, Glass ha iniziato a lavorare a un’ulteriore trilogia di «character operas», basate sui film di Cocteau Orphée, La belle et la bête e Les enfants terribles. Qui il compositore ripensa la musica da film in una nuova concezione, dove nuove forme multimediali sono inventate durante il processo: in La belle et la bête, ad esempio, la sceneggiatura di Cocteau è trattata come un libretto, interpretato da cantanti e dal Philip Glass Ensemble durante la proiezione del film, al quale è stata tolta la colonna sonora originale. Questa trilogia ha suscitato apprezzamenti unanimi a livello internazionale. Nel corso della sua carriera Glass ha collaborato con numerosi artisti, tra cui musicisti pop e rock, esercitando una forte influenza anche in questo campo: in particolare, David Bowie e Brian Eno hanno dichiarato di essersi riferiti alla sua musica durante la scrittura dell’album Low (1977)
- Antonio Trudu, Riflessioni sul minimalismo americano. In: Itinerari della musica americana, a cura di Gianmario Borio e Gabrio Taglietti, Lucca, LIM, 1996, pp. 135-164.
- Alessandro Rigolli, Einstein on the beach di Philip Glass e Bob Wilson: Caratteri di una 'non-opera'. «Rivista Italiana di Musicologia», 36, 2 (2001), pp. 351-373.
- Alessandro Rigolli, Philip Glass: L'opera, tra musica e immagine. Milano, Auditorium, 2011.
- Jacopo Leone Bolis, La voce minimale: Steve Reich (It’s gonna rain, Come out), Philip Glass (Einstein on the beach, Knee play 5) e Terry Riley (Church of anthrax, Descending moonshine dervishes, Atlantis Nath). «De Musica», 17 (2013), pp. 65-82.
- Matteo Ruffo, Il Concerto per violino e orchestra di Philip Glass e la nascita del post-minimalismo. «De Musica», 21 (2017), pp. 217-236.
- Philip Glass, La mia musica. Roma, Socrates, 1993.
- Philip Glass, Words without Music: A Memoir. Londra, Faber & Faber, 2015.
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